XXXIII Domenica del Tempo Ordinario
Come dicevamo domenica scorsa, al termine dell’anno liturgico nel ciclo A, la liturgia evoca nuovamente il ritorno del Signore, l’evento verso il quale tende tutta la storia della salvezza.
Matteo, a tal proposito, ci presenta la parabola dei talenti.
Il talento corrispondeva a 60 mine (di cui parla invece Luca nel brano parallelo). Ogni mina, solitamente d’argento, di quasi 600 grammi corrispondeva, al tempo di Gesù, a 100 dramme e una dramma a poco più di un denaro.
Premesso ciò, anche il servo che ha ricevuto un solo talento riceve un capitale enorme. Bisogna qui comprendere che si tratta di beni che vanno al di là della valorizzazione delle qualità umane, innate o acquisite.
La parabola evoca infatti il tesoro inestimabile della grazia che Dio attribuisce a ciascuno secondo le sue capacità.
Sotterrarlo con la scusa di non perderlo è comportarsi da schiavi pavidi e indolenti. Ed è soprattutto offendere Dio considerandolo un padrone spietato.
Dio non vuole servitori del genere. I suoi doni attestano la sua fiducia
Quando ritornerà, il Signore domanderà a ciascuno di rendere conto della sua gestione.
Allora coloro che si presenteranno davanti a lui tenendo in mano il risultato dei loro sforzi riceveranno infinitamente di più: entreranno nella gioia del loro Signore.
Credere, essere fedele servitore di Dio e vero discepolo di Cristo, è anche agire.
Dio, in fondo, ci chiede la fedeltà alla sua grazia di ogni giorno nel compimento dei doveri quotidiani.
Come la “donna perfetta” del libro dei Proverbi nella prima lettura. Essa è l’esempio dell’utile e silenziosa fedeltà ai doveri quotidiani, fondamento della santità.
Ecco perché Dio ne fa l’elogio.